Chiesa Cattolica, Meditazione

Gregorio Magno un autentico Pastore, un Padre amorevole

Gregorio Magno fu per alcuni anni,  funzionario civile, fino a raggiungere la carica di praefectus urbis. Poi abbandonò carriera e beni, convertì in dimora monastica la sua casa al Clivus Scauri sul Celio e vi divenne monaco. Poco dopo fu ordinato diacono e inviato come apocrisario a Costantinopoli ove per circa sei anni condusse la vita del diplomatico.

Tornato a Roma riprese la vita monastica intersecata peraltro da unʼattività di segreteria nella curia papale: pochi anni drammatici al termine dei quali fu chiamato alla cattedra del successore di Pietro. La vita monastica, insomma, l’unica che Gregorio abbia veramente scelto e amato, durò pochissimi anni. Gregorio li rimpiangerà sempre.

Gli elementi costitutivi di questo genere di vita sono essenzialmente due: la tranquillità e la preghiera.

Della tranquillità amata da Gregorio nella vita monastica sono testimonianza alcuni passi degli anni del pontificato: passi in cui dunque il timbro è quello del ricordo nostalgico di un mondo perduto. Così, nel prologo dei Dialoghi egli si abbandona alla seguente confessione:

Il mio infelice spirito, percosso dalle ferite delle sue occupazioni, si ricorda di come visse un tempo nel monastero: come tutte le cose caduche erano al di sotto di lui, come egli dominava dall’alto su tutto ciò che passa, e il fatto che era abituato a pensare solo alle cose celesti; che anche trattenuto dal corpo attraversava con la contemplazione i limiti della carne.

Il contatto assiduo con la Scrittura anima tutta la vita dell’uomo, ed è utile soprattutto in due direzioni strettamente legate una all’altra: da un lato per la conoscenza di sé, della propria natura e dei meccanismi profondi della propria psiche; d’altro lato per la ricerca di criteri atti a guidare il comportamento quotidiano. Soprattutto per sé, dunque: non tanto per una conoscenza gratuita delle opere di Dio, per ricavarne una teologia della storia come amava fare Agostino. Illuminante a questo proposito è il seguente passo dei Moralia:

La Santa Scrittura si presenta agli occhi della mente come una sorta di specchio: noi possiamo vedere in essa il nostro volto interiore. Lì conosciamo infatti ciò che in noi è laido e ciò che è bello. Lì ci accorgiamo di quanto avanziamo e di quanto lontani siamo dal progresso. Essa narra le azioni dei santi e provoca i cuori dei deboli alla loro imitazione. Ricordando le loro vittorie, essa rassicura la nostra fragilità di fronte all’assalto dei vizi. Avviene così grazie alle sue parole che il nostro cuore sia tanto meno trepidante nelle lotte che deve sostenere quanti più trionfi si vede posti di fronte da parte di uomini forti. Talvolta invece essa ci racconta non solo le loro virtù, ma ci svela anche le loro cadute. Così nelle loro vittorie noi vediamo ciò che dobbiamo fare nostro mediante l’imitazione, e nelle loro cadute ciò che dobbiamo temere.

Condizione perché ciò avvenga è, ancora, che la lettura della Scrittura muova dall’amore e sia dunque da esso sostenuta. Il rapporto con la parola di Dio non può essere fatto di semplice studio, per quanto attento esso sia: somma attenzione va posta invece nel mettere l’amore al centro di esso.

Nei Moralia scrive:

È necessario che chiunque si affretta all’impegno della contemplazione interroghi prima sé stesso con sagacia su quanto ama. Infatti la forza dell’amore è la macchina della mente (Machina quippe mentis est vis amoris): mentre trae la mente fuori dal mondo la solleva verso l’alto. Prima dunque esamini se mentre investiga le realtà più alte le ha care, se avendole care ha timore, se è capace di comprendere attraverso l’amore ciò che non conosce e di venerare attraverso il timore ciò che non è giunto a comprendere

L’operosità instancabile e minuta legata al ministero, come pure il necessario chinarsi sul prossimo, furono un costante richiamo al discernimento su di sé e un aiuto a evitare le illusioni.

Gregorio ne parla in un passo velatamente autobiografico:

Ai santi capita spesso che, vedendosi toccati da un grande dono di grazia celeste, si ritengano ormai perfetti; e si pensano obbedienti, ma solo perché non vi è nessuno che ordini loro cose dure; e si credono pazienti, ma solo perché nessuno li urta con insulti o con avversità. Allora molte volte succede che assumano controvoglia un ministero spirituale, e siano costretti al governo dei fedeli.

Controvoglia”: è l’esperienza stessa di Gregorio. Il quale così continua:

Allora essi vengono urtati da ogni parte da grandi tribolazioni. L’anima loro si turba. Così si scoprono imperfetti, proprio loro che finché non venivano urtati si erano creduti perfetti. Di conseguenza accade che rientrino in sé stessi e tacitamente arrossiscano dentro di sé per la vergogna di esser tanto deboli. Fortificati quindi dalla loro stessa confusione oppongono alle avversità la loro pazienza; grazie alla tribolazione avanzano. Essi, che prima nella tranquillità dormicchiavano a causa della loro sicurezza, cominciano ad essere veramente ciò che in precedenza pensavano vanamente di essere

Diventa così vitale, per la propria verità umana e spirituale, accogliere con gratitudine le difficoltà quotidiane, e anzi desiderarle:

L’anima del giusto, nel suo progredire, mentre prima si occupava soltanto di ciò che è suo e si infastidiva a portare i pesi altrui; mentre, poco portata a compatire i problemi altrui, non riusciva a stare salda di fronte alle avversità, quando si lascia attirare a tollerare le debolezze del prossimo diventa salda per superare le avversità. E così, per amore della verità, ora desidera le tribolazioni di questa vita con la stessa forza con cui prima rifuggiva le debolezze altrui. Con il suo piegarsi si innalza, con il suo inchinarsi tende verso l’alto, con il suo con-soffrire si rafforza. E quando si dilata nell’amore del prossimo, con una sorta di esercizio raccoglie le sue forze per innalzarsi verso il Creatore. Quella carità che ci umilia per darci la compassione ci solleva a una vetta di contemplazione ancora più alta

L’accettazione grata delle difficoltà comprende ovviamente anche l’incontro con il male. E ancora una volta gioverà ricordare la sua grande affermazione:

Ciascuno porta il suo prossimo nella misura in cui l’ama “Se ami, porti. Se cessi di amare, cessi di tollerare.

Noi non vogliamo portare i mali del prossimo, noi abbiamo deciso che tutti ormai devono essere santi, rifiutando di aver qualcosa da sopportare a causa loro. Ma in questo stesso rifiuto appare più chiaro della luce quanto poco di bene abbiamo ancora in noi stessi, allorché ci rifiutiamo di sopportare i cattivi (…). Spesso, quando noi ci lamentiamo della vita del prossimo, cerchiamo di cambiar luogo, di scegliere il nascondimento di una vita più ritirata. Non sappiamo che se lo spirito vien meno, non serve il luogo

Proviamo, a riandare con la memoria alle descrizioni colme di lirica nostalgia con cui Gregorio parlava della propria vita nel monastero. Quanto profondamente il maestro interiore, attraverso il limite e la sofferenza, aveva in realtà scavato nell’anima del suo discepolo L’esempio perfetto della compresenza di interiorità ed esteriorità è chiaramente la persona di Cristo.

Cristo è la pietra angolare: da una parte perché ha unito in sé i due popoli, d’altra parte perché ha mostrato congiunte in sé gli esempi delle due vite, attiva e contemplativa. La vita contemplativa in effetti è molto lontana dalla vita attiva. Ma il nostro Redentore, venendo a noi nell’incarnazione, le ha unite entrambe in sé mostrandole entrambe a noi. Mentre infatti faceva miracoli nella città, passava la notte sul monte in continua orazione. Diede così un esempio ai suoi fedeli, affinché questi non trascurino l’attenzione al prossimo per amore della contemplazione, né abbandonino gli esercizi della contemplazione perché eccessivamente occupati dall’attenzione al prossimo: ma stando in entrambe le congiungano in modo tale che l’amore del prossimo non faccia ostacolo all’amore di Dio, né che l’amore di Dio, che è più grande, abolisca l’amore del prossimo

Improvvisamente, preso fra la paura e la devozione, levando gli occhi dell’anima a Colui che largisce tutti i beni e messa da parte ogni esitazione, ebbi all’istante la certezza che non poteva essere impossibile ciò che mi comandava la carità proveniente dal cuore dei fratelli

Gregorio si sentiva profondamente responsabile della conversione continua del gregge affidatogli: un giorno ebbe a evocare i “dolori somiglianti alle fatiche materne” con cui i pastori “partoriscono le anime nella fede e nella vita”, fra il “dolore per chi cade” e il “timore per chi sta in piedi” . Ciò in ogni momento, anche in contesti non legati alla considerazione della fine del mondo. A tale responsabilità esortava poi i confratelli nell’episcopato, perché perseverassero nel loro ministero con una combinazione di forza e di umiltà . Ma in lui la sofferta responsabilità dell’azione quotidiana si univa a un altro, più duro motivo di sofferenza: era la convinzione che, soprattutto in quel tempo di prova, i pastori fossero i responsabili della rovina eterna del popolo, sia teologicamente che di fatto:

Dopo che Gesù ebbe narrato i mali che sarebbero venuti, entrando subito nel tempio per cacciare coloro che vendevano e compravano manifestò chiaramente che la rovina del popolo avviene soprattutto per colpa dei sacerdoti (…). Cristo elimina dal tempio coloro che vendevano e compravano, perché condanna quelli che impongono le mani in cambio di doni e quelli che cercano di comperare il dono dello Spirito santo “Vedete come il mondo è ferito dalla spada, e il popolo ogni giorno perisce per le percosse che riceve. Di chi è la colpa, se non soprattutto del nostro peccato? Ecco città saccheggiate, fortezze abbattute, chiese e monasteri in rovina, campagne ridotte alla solitudine. Noi siamo autori di morte di fronte a un popolo che perisce, noi che dovremmo essere guide alla vita. Per il nostro peccato la massa del popolo è prostrata, perché a causa della nostra negligenza essa non è stata istruita per la vita (…). Chiediamoci allora: quanti si sono convertiti per la nostra parola? Quanti hanno fatto penitenza lasciando le loro opere perverse perché colpiti dal nostro rimprovero? Chi ha abbandonato la lussuria per le nostre esortazioni, chi ha abbandonato l’avarizia e la superbia?”

Talvolta non è neppure una situazione di peccato dei pastori ad essere la radice della morte del popolo: Gregorio vide talvolta una necessità intrinseca alla sua stessa azione, una specie di condanna all’indegnità, che gli era chiesto di assumere benché ne percepisse tutta la distanza dall’ideale. Nella situazione di quel momento, insomma, non era possibile essere un pastore all’altezza del proprio compito.

Un altro fatto, fratelli carissimi, mi rattrista enormemente nella vita dei pastori. Ma perché quanto sto per dire non rischi di parere ingiurioso a qualcuno, rivolgo l’accusa anche contro me stesso, in quanto, spinto dalle necessità di questi tempi barbarici, indugio molto in simili faccende, benché controvoglia. Ci siamo tuffati negli affari terreni; e altro è quello che abbiamo accettato con la nostra carica, altro quanto mostriamo con la nostra attività. Noi abbandoniamo il ministero della predicazione, e a nostra punizione, mi sembra, siamo chiamati vescovi, ma di tale onore teniamo il nome, non la virtù. Quelli che ci sono stati affidati abbandonano Dio e noi taciamo (…). Presi dalle preoccupazioni terrene, diventiamo tanto più insensibili nel nostro intimo quanto più ci mostriamo solleciti nelle faccende esteriori

Gregorio si sentiva imprigionato non solo in una vita pastorale lontana dalle sue aspirazioni monastiche, ma proprio in quella vita di funzionario civile che aveva a suo tempo lasciato; si sentiva costretto a un’azione che non giovava alla salvezza eterna del gregge che pur dipendeva da lui.

L’effetto di tale visione di sé fu talvolta un profondo smarrimento. Così egli scrisse un giorno ad un confratello

Io sono spaventato di fronte al peso della mia debolezza, e ho gli occhi fissi su quel Padre di famiglia che ritornerà dopo aver ricevuto un regno per regolare i conti con noi. Con quale disposizione interiore mi terrò davanti a lui, se non gli porterò alcun guadagno, o quasi, dalla gestione delle anime che ho ricevuto? Aiutami dunque, fratello carissimo, con la tua preghiera…

Cʼè un ulteriore elemento che rendeva supremamente difficile a Gregorio emergere dalla sofferenza proveniente dalla tragica realtà circostante.

Si tratta del fatto che in linea generale, malgrado l’idea che le tribolazioni siano inviate da Dio per indurre a pentimento, malgrado i tentativi di cogliere le opportunità di conversione da esse offerte, in realtà Gregorio non poteva sottrarsi interamente al senso di assurdo che gli veniva dalla presenza del male. Sostanzialmente mancava a Gregorio una teologia che ponesse il male, il peccato e la sofferenza all’interno di una visione provvidenzialistica, che li inserisse in un ordine universale. Val la pena a questo proposito ricordare per contrasto la visione di Agostino, che molto si dilunga su questi temi per dar vita a una ricca e sottile teologia: il male non è creato da Dio ma la sua presenza è da lui voluta in vista degli obiettivi del suo piano di salvezza. In questo piano rientra anche la condanna eterna dei dannati, che è frutto della sua mirabile giustizia. A Gregorio invece il comportamento di Dio può perfino apparire al limite dell’arbitrio: non per nulla la tradizione gli attribuì il pianto sulla condanna eterna del pagano ma pur giusto imperatore Traiano.

All’ex-funzionario imperiale formato alla certezza del diritto romano sembrava talvolta che al peccatore venissero a mancare le ovvie garanzie giuridiche che sono assicurate a tutti:

Noi sempre riconosciamo di essere peccatori; ma tuttavia, posti spesso tra i flagelli, ignoriamo per quale peccato siamo maggiormente flagellati. Allora sottoponiamo noi stessi ad un esame rigoroso, per cercar di scoprire, se in qualche modo vi riusciamo, il motivo per cui siamo battuti. Ma dato che per lo più esso ci rimane nascosto, la nostra cecità diventa per noi un peso e il nostro patimento ci addolora ancora di più. Chiunque entra in giudizio con un suo compagno dice quel che sente di dover dire, conosce ciò di cui è accusato, colpisce dove vuole e sa da dove è colpito. Chi invece è percosso dal castigo divino sa certo di essere colpito, ma ignora perché lo sia; sente quel che sente di dover dire, ma non sa che cosa si dice contro di lui; geme sotto le frustate, ma Dio non dichiara apertamente per quale delitto lo ferisca .

Di fronte all’immane dolore della sua gente gli restava un triplice atteggiamento da assumere.

Il primo è la saldezza dello stare al proprio posto nonostante tutto, nella coscienza della propria responsabilità verso Dio e verso i fratelli.

Il secondo è un imperativo di solidarietà con chi soffre: atteggiamento grazie al quale l’amore sempre cercato portava non più, a superare la sofferenza propria accettandola con l’entrare in se stesso, ma ad entrare nella sofferenza altrui per sollevarla facendosi altro da sé:

Sebbene la vera compassione consista nel soccorrere con generosità il prossimo che soffre, tuttavia qualche volta, mentre si è pronti ad elargire con abbondanza i beni esteriori, la mano di chi dà trova più rapidamente la capacità di donare di quanto il nostro cuore trovi la capacità di assumere la sofferenza. Per questo è necessario sapere che dona in modo autentico colui che, mentre elargisce a qualcuno un dono perché è afflitto, assume in sé anche lo stato d’animo dell’afflitto: dimodoché prima accoglie in sè la sofferenza di chi è nel dolore, e allora assume la capacità di soccorrere il suo dolore.

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